Parole controcorrenti, semplici e globali come la vita.
A cura di: Ferdinando Garetto

Il messaggio è stato semplice, forte e profondamente umano. Accolto -va detto- con serietà e rispetto anche da chi nella controparte ha visioni diverse. Quattro malati affetti da patologie gravi e irreversibili hanno chiesto di poter intervenire nelle audizioni della Consulta della Corte Costituzionale su una nuova vicenda di suicidio assistito (che ne estenderebbe il diritto anche nei casi non dipendenti da trattamenti artificiali di supporto vitale) presentando un’istanza chiarissima: l’unico diritto da tutelare è il diritto alla vita. Le loro parole, riportate da molti quotidiani dei più diversi orientamenti, chiedono che l’autodeterminazione non sia la legge assoluta. Si aspettano uno Stato che dica “la tua vita per me è talmente importante che voglio proteggerla anche nei momenti di maggior debolezza”. Lo dicono con la forza delle relazioni umane e con la paura di una fragilità viziata dal dolore in cui possano essere “altri” a decidere al posto loro. L’esempio, riportato dagli avvocati che hanno sostenuto al loro causa, è diretto ed esplicito: “È come mettere una pistola carica sul comodino di chi sta male. Loro la pistola non la vogliono. Anzi, la sola idea che gliela si lasci sul comodino – solo sul loro, perché sono malati – suona come offesa alla dignità, a dire “se ci ripensi, premi pure il grilletto, tanto la tua vita è disponibile perché vale meno di quella di tutti gli altri, che della vita non possono disporre (e infatti la pistola a loro mica gliela lasciamo…)”.
Un messaggio decisamente controcorrente, ma che dà voce a un bisogno molto più diffuso di quanto non sia all’ordine del giorno dei notiziari e dei media. I malati che incontriamo nei luoghi di cura (che siano in hospice, nelle case o negli ospedali) chiedono in genere di essere curati e non abbandonati, non di morire. E quasi sempre anche coloro che si sentono così fragili e di “peso” per i propri cari da voler morire trovano in semplici gesti di cura quotidiana e nell’attivazione di servizi dedicati una risposta a quello che è sempre, prima di tutto, un grido di dolore.
Sono temi da affrontare con rispetto e delicatezza, in cui è sempre più richiesto uno “sguardo etico” umile, che interroga ciascuno di noi sul significato profondo che si vuole dare al concetto di “vita umana”. Lavorare a servizio della vita è una questione di libertà e di diritti che richiede una visione che vada al di là delle sue fasi più fragili dell’inizio e della fine. Tornano alla mente le parole di Cicely Saunders, ispiratrice delle moderne cure palliative e espressione di un “carisma medico” ancora oggi attualissimo della cura della sofferenza (fisica, psicologica, sociale, spirituale) che è detta “dolore globale” così come “globale” è la vita umana in tutte le sue dimensioni. Diceva la Saunders a proposito dell’eutanasia e del suicidio assistito in una profetica lettera del 1993: “Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molti dei “dipendenti” sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e per la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia (…) ne risulterebbe come grave conseguenza una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione, privandoli così della loro libertà…”.

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Vi invitiamo a segnalarci argomenti, materiali e/o testimonianze che reputiate interessanti e degni di approfondimento, sarà poi la redazione, in linea con il piano editoriale impostato a decidere se e come pubblicare il materiale suggerito …sempre sul sentiero di Cicely.
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