La negazione tenace, anche se inespressa, della morte come possibilità porta a rinviare qualsiasi discorso che la riguardi, investendo, quando si è gravemente malati, tutte le energie nella ricerca di cure che assicurino almeno la sopravvivenza, cambiando casomai medici se quelli a cui ci siamo rivolti non condividono il nostro proposito oppure, col venir meno della fiducia nella medicina, cercando di abbreviare la vita che resta.
L’invocazione in uso nei secoli passati “A subitanea morte libera nos Domine” è stata esaudita: oggi la vera paura è proprio la morte protratta, mentre si aspira alla “subitanea morte”, nel sonno, per un evento acuto o per scelta.
Si comprende allora come questi atteggiamenti siano uno degli ostacoli principali a una integrazione strutturale della medicina palliativa nel percorso di cura delle persone che si avvicinano alla fine della vita, non solo sul versante individuale di chi vive la malattia, ma anche su quello familiare e sociale.
Se osserviamo invece la questione sul versante professionale, dobbiamo riconoscere che formalmente la situazione è molto cambiata negli anni, tanto che oggi è assai raro incontrare da parte di operatori sanitari prese di posizione contrarie alla cure palliative: tuttavia, la loro assimilazione nelle scelte professionali temo sia ancora lontana dall’essere soddisfacente.
In termini esemplificativi: quanti sono oggi i cardiologi o gli pneumologi che prendono in esame la possibilità di coinvolgere tempestivamente i servizi di cure palliative quando hanno la percezione dell’inefficacia delle cure e della brevità della prognosi? Ovviamente la stessa domanda si può porre a molti altri specialisti e a molti medici di cure primarie…
È stato molto importante aver completato la normativa conseguente alla legge 38 che risale ormai al 2010; resta da percorrere “l’ultimo miglio”, forse il più difficile: informare, formare e convincere operatori e pazienti, oltre che amministratori, che è finito il tempo delle cure palliative come casuale, oltre che fortunata, opportunità in un momento difficile della vita, ma come diritto da esigere da parte dei pazienti e come dovere del SSN.
Credo che questo passaggio sia il più complesso perché chiama in causa dinamiche psicosociali ataviche, che sono state radicalmente cambiate dai progressi della medicina che ha molto prolungato la sopravvivenza di persone con malattie croniche, ma non è ancora riuscita a dotarsi sistematicamente di strumenti per capire quando l’ostinazione delle cure rischia di diventare inumana, impedendo alle persone di morire piuttosto che aiutarle a vivere al meglio fino alla fine.
Mi pare che le prospettive siano buone nel medio-lungo periodo, quando il corso di medicina e cure palliative sarà obbligatorio nei corsi prelaurea di medici e infermieri e la scuola di specializzazione in medicina palliativa, appena iniziata, comincerà a formare i primi specialisti, anche se ancora pochi rispetto ai bisogni.
Nel frattempo, l’obiettivo di chi opera in cure palliative dovrà essere quello di una “normalizzazione”, peraltro già lentamente iniziata, per cui parlare di cure di fine vita, di pianificazione delle cure, di deprescrizione farmacologica, di sedazione palliativa non sia più un percorso tortuoso, ricco di equivoci, di interdetti e di rimozioni, ma una parte integrante di una medicina capace di offrire il meglio nel prendersi cura delle persone malate per guarirle tutte le volte che ciò è possibile, ma che sappia agire con altrettanta qualità e attenzione quando l’orizzonte realistico è quello dell’avvicinarsi della morte.
Spiritualità, tra dare e ricevere: la proposta alternativa delle Cure Palliative nella relazione di cura
Il tempo della Comunicazione
‘Abbiamo perso il senso del prenderci cura gli uni degli altri’
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