
Come è bello fare la Specialità in Medicina Palliativa!
A cura di: Dr.ssa Carla Bettini, specializzanda in Medicina e Cure Palliative/Università di Bologna
Le Cure Palliative rappresentano un campo della medicina per molti non ancora del tutto chiaro, a volte giudicato addirittura superfluo, a tratti banalizzato.
Questo valeva anche per me, ora specializzanda al secondo anno di Medicina e cure palliative all’università di Bologna. Come spesso accade, o perlomeno come spesso accade nella mia vita, ho scoperto per caso il mondo delle cure palliative, frequentando in un Hospice al sesto anno di Medicina.
Lì ho trovato risposte a molte delle mie domande, che i miei studi e la mia frequenza negli altri reparti mi aveva portato a pormi, come anche lo aveva fatto la mia esperienza di vita fino a quel momento: tutte le persone a cui veniva diagnosticata una malattia a prognosi infausta, talvolta anche a breve, tutti coloro i quali portavano il peso di una diagnosi di terminalità, le famiglie di questi pazienti, quale era il loro destino? Chi si sarebbe occupato di loro dal momento che “non c’era più nulla da fare?”. A casa o in un reparto non “adatto” a gestire alcuni tipi di sintomi, magari lontano dai propri affetti, come sarebbero morti?
Immaginavo l’angoscia delle ultime ore, la solitudine, la sofferenza e il senso di abbandono che potevano avere; immaginavo la sofferenza di un famigliare che non riesce e non sa come fare ad aiutare il suo caro sofferente. Questa, marginalmente, l’avevo vista anche a casa, dove più volte c’era stato bisogno di accudire qualcuno nelle sue ultime ore, difficili e complicate, anche perché spesso, le ore facevano i giorni e i giorni le settimane, con difficoltà, stanchezza, apprensione e dolore, a volte prolungate.
Ma soprattutto mi chiedevo: era vero che non c’era più nulla da fare per questi malati, giudicati inguaribili? In quanto medici avevamo fallito? Eravamo davvero “impotenti”?
Durante il breve, anzi brevissimo, tempo passato in Hospice, ho scoperto che, invece, c’era moltissimo che si poteva fare per queste persone, senza cadere nell’accanimento terapeutico e senza arrivare all’abbandono. Dal controllo del dolore, dei sintomi più disturbanti, al conforto e la consolazione che si poteva offrire: a volte anche la semplice presenza, che silenziosa, combatte la solitudine. Mi rendevo piano piano conto che assistevo ad un cambio di sguardo da un’ottica di guarigione, ad un’ottica di cura, che poteva comunque, in un certo senso, salvare.
La morte e la malattia, che, viste senza senso e come fonti inesauribili di sofferenza, terrorizzano, lì potevano fare meno paura. Dico potevano, perché comunque la sofferenza c’era e c’è, la paura anche, così come la fragilità dell’uomo e della sua famiglia.
Ma la bellezza stava anche proprio in questo: quando della persona in “caduta libera” non rimaneva che fragilità e dolore, ecco pronte delle braccia che la potevano sostenere, aiutando a portare il peso di quel momento, donando nuova dignità alla fragilità e dolcezza al distacco. Anche nelle piccole cose, come chiamarsi per nome tra medico e paziente e stringersi la mano nei momenti difficili, bussare alla porta, sedersi a parlare del più e del meno.
Ho trovato, quindi, il modo di fare il mio lavoro, con fatica, certo, ma in un modo che avrebbe fatto bene anche a me, rendendomi fiera di quello che faccio e rendendomi parte (a volte piccola, a volte piccolissima) di un sistema in grado di cambiare la storia naturale della sofferenza della persona e dei suoi famigliari.
Detto in parole semplici, rendendomi parte di un mondo a cui non avrei paura di affidare i miei cari, qualora ce ne fosse bisogno.
Parole controcorrenti, semplici e globali come la vita.
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