Da La donna che trasforma la morte in vita, di Barbara Carrai, Edizioni Messaggero, Padova, 2019
Quanto è terapeutico narrare la propria storia per riconoscerne il valore e la possibilità di essere d’aiuto ad altri? Questa è una storia che si avverte subito profondamente autentica e “icona di guarigione”; è un libro di speranza, senza dubbio, che però non maschera la realtà nuda e cruda di un lutto dolorosissimo, anzi: ne descrive con sincerità la strada tortuosa, tra smarrimento e bagliori di luce, in un inverno ghiacciato che solo a primavera mostra qualche segno di disgelo. È una storia che narra la metamorfosi della morte in vita.
Barbara Carrai è una di quelle donne forti di cui condivide il ricordo: la sua è la testimonianza di una giovane donna che si trova a perdere il compagno di vita, suo marito Federico, dopo aver condiviso tanti passi, compreso un cammino interiore di meditazione che, poi, le è stato silenziosamente amico nel tempo del lutto, nel trasformare il dolore immenso della vedovanza in un tempo di attesa e di imbocco di nuove vie senza sprofondarci dentro.
Sophia, Louise, Concetta, Anne, Irina, custodite nella sua memoria, “nel momento più duro della mia vita… mi sono tornate in mente e sono state come un balsamo per le mie ferite”. Un po’ come i personaggi magici che compaiono nel viaggio dell’eroe nelle fiabe e lo aiutano, se è pronto a farlo, a superare le prove più difficili in vista di raggiungere la meta: soltanto se si è pronti ad accogliere, accettare e, quindi, trasformare in opportunità anche una prova così devastante
È ciò che in Oriente viene definito il “trasformare il veleno in medicina”, cioè l’intuire che “la sofferenza può diventare un trampolino per un’esperienza di felicità più profonda”. Ma quanto è distante la nostra moderna cultura occidentale da questa visione possibile, per scarsa dimestichezza con la morte fin da bambini, per solitudine e deprivazione di rituali, per paura…
Barbara narra con delicatezza come la morte di suo marito, avvenuta nella loro casa, sia stato un momento che sempre l’accompagna con dolcezza: “sembrava di essere in un luogo sacro, dove tempo e spazio non erano più”. La sua presenza-assenza venne subito condivisa dalla cerchia più stretta di familiari e amici, anche tanti bimbi: “vengono a dare un ultimo saluto, a scambiare due parole, a raccontare aneddoti della sua vita. Ci si raccoglie intorno a lui, si prega a lungo come individui, come comunità”. E poi il rito di prendere ognuno qualcosa di lui…
Vivere il tempo del dolore, però, è un passaggio inevitabile, lungo e spiazzante, che richiede di toccarne il fondo per poi riemergerne e la parte più dolorosa inizia dopo la morte della persona amata. Ci vogliono tempo, pazienza, accoglienza del “sentirsi congelati”, silenzio e solitudine: come quelli che lei trova rifugiandosi in un paesino delle Dolomiti, dove si costringe a restare fino a primavera, quando, dopo giorni bui e tempestosi, inizia a percepire un tenue accenno di disgelo… Leggendo, camminando nei boschi, come si imponeva di fare, controvoglia: pratiche che, piano piano, le fecero bene e favorirono anche l’affiorare dei ricordi di quelle storie di donne coraggiose, che trasformarono il lutto in dono.
Certo “ci sono voluti tanti mesi ancora” per essere capace di lasciare andare e trasformare il dolore in danza, come fanno i trapezisti del circo che “devono avere il coraggio di lasciare la sbarra che li sorregge e affrontare il vuoto”.
Maestro e guida fu per lei Viktor Frankl: “non potevo cambiare gli eventi, ma potevo ancora decidere che senso dargli”. Una conversione, dunque: “smettere di chiedersi il perché?… Interrogarsi piuttosto su a quale scopo?” e divenire, così, artefici del proprio destino. Anche se fatto di cocci messi insieme, seppur con l’oro, come insegna l’arte giapponese del Kintsugi.
Non è forse questo l’apprendistato dei “guaritori feriti” di cui parla Nouwen? “Persone che avendo vissuto e superato in prima persona delle perdite possono offrire un aiuto concreto all’altro, che non sarà percepito come autentico se non proverrà da un cuore ferito dalle stesse sofferenze”.
C’è una vita “prima” e una vita “dopo”, allora: la distesa di violette spuntate nel ghiaccio commuove nel suo mistero; la canzone composta da suo marito dal titolo “Tutto è vita” ha ispirato, un anno dopo la sua morte, l’associazione omonima che “si occupa di accompagnare spiritualmente le persone nelle fasi della malattia e sostenere chi resta nel percorso del lutto”.
Grazie, Barbara, la tua storia è da onorare con gratitudine profonda.