Resisti, cuore.
L’Odissea e l’arte di essere mortali
Alessandro D’Avenia, Mondadori, 2023
“Perché Omero chiama gli uomini i mortali?”: inizia con questa domanda di uno studente di prima superiore del Liceo Classico (la vecchia quarta ginnasio) un libro meraviglioso, avvincente, ricco di pathos e di ethos, proprio come il poema che l’autore rilegge alla luce dei nostri giorni e della sua personale esperienza di insegnante appassionato del suo mestiere.
Perché prendersi la briga di “propinare” per intero l’Odissea a millenni di distanza dalla sua composizione, perdipiù spalmandola in un intero anno scolastico, un canto a settimana, per iniziare così il cammino di preparazione all’esame di maturità che, se tutto va bene, avverrà cinque anni dopo? Alessandro D’Avenia, che abbiamo avuto la gioia di ascoltare dal vivo presentare questo testo e l’emozione di assistere, dopo più di due ore di monologo, ad una standing ovation di quattrocento persone in un Auditorium universitario gremitissimo, non fa fatica a spiegarne la ragione profonda: per imparare a ri-esistere, a tornare al cuore, a far proprio un biglietto di solo ritorno alla propria Itaca… Come a dire, per approdare, infine, alla terraferma dopo aver perigliosamente navigato nel mare della vita; e, nel suo contesto di maestro che ama i suoi allievi e li ascolta, li interpella e li prende sul serio, per prepararli alla maturità vera, che potrebbe declinarsi in un’unica domanda da argomentare in un’ora: “Perché sono venuto al mondo?”.
Capiamo, dunque, come l’Odissea, l’unico poema cui, per antonomasia, si identifica la vita umana (“la vita è un’odissea”, “la mia odissea personale”, si è soliti dire), ci riguarda tutti: studenti, giovani, meno giovani, anziani, sani, malati… e anche malati inguaribili o morenti. Ci interroga tutti, perché “l’uomo è impastato con la morte” e, riflette Alessandro, notando i gesti apotropaici che fanno i ragazzi quando lo dice (greco, quanto sei bello e ricco di sfumature! Gesti “di allontanamento”, scaramantici), “la morte, che sin da bambini ci viene nascosta come se fosse la nostra peggiore nemica… sarebbe auspicabile farcela amica come la miglior compagna della vita”. Perché la consapevolezza di essa ci sveglia, perché ci stimola a non sprecare il tempo, a non ciondolare, a scegliere di vivere con autenticità.
Quanto questo accade a tutti, con reazioni ed esiti differenti, quando una diagnosi infausta o una certezza di inguaribilità fa capolino nella vita e ne stravolge “la mappa”, i sentieri conosciuti, le speranze, i desideri, i programmi… Coinvolgendo familiari, amici, colleghi e tutte quelle relazioni che possono rafforzarsi o spezzarsi, tra le onde della malattia e del percorso di cura. Perché curare, sì, invece, è sempre possibile, nel senso di “prendersi cura” (to care, inglese), come testimoniano le Cure palliative ben fatte, quelle che aggiungono vita ai giorni e regalano, oltre ai farmaci che controllano il dolore e i sintomi, una presenza significativa e avvolgente fino all’ultimo istante. Sul modello di Cicely, ci viene da riflettere, ma perché lei stessa si rifaceva alle antiche tradizioni degli hospitia e degli hospitalia, cioè prendeva spunto e ispirazione dalle antiche, sagge, accoglienti pratiche di pietas che, fin dai primi segni di civiltà, hanno caratterizzato la comunità umana: senza quella pietas, attualizzata ai nostri giorni con tutti i mezzi che abbiamo in più grazie alla ricerca e alla tecnologia, non c’è cura vera e propria… Manca l’essenziale.
Rileggere l’Odissea, allora, è ritrovare i fili mai spezzati di vicende che assomigliano alle nostre, ne sono paradigma e ci sollevano domande di senso; racconta, in buona sostanza, come si fa a vivere, declinando il percorso su tre verbi/azioni fondamentali: partire, viaggiare, tornare.
Non è l’Odissea ad essere attuale, come spesso si sente dire, continua l’autore: è l’Odissea, semmai, a rendere attuali noi, me, te, lui… Uno ad uno, secondo modalità universali, eppure personali e personalizzate, “sartoriali”, come si dice in Medicina Narrativa: il potere della parola, che tesse trame di significato e crea appartenenza, è quello che da millenni ci connette e ci permette di comunicare, tutte espressioni che contengono il cum che crea comunità. Sediamoci in cerchio, allora, come facevano i nostri antenati nei palazzi micenei intorno al focolare quando gli aedi raccontavano oralmente le storie; anche se metaforicamente, lasciamoci incantare e ispirare da chi, seppur cieco (Omero è “colui che non vede”) ancora oggi è una guida insuperabile che vede “l’essenziale invisibile agli occhi”.