Nella prima sezione dell’articolo, abbiamo esaminato gli indizi visibili del morire: in questa seconda parte ci soffermeremo sugli aspetti invisibili del processo della morte, anche se Jo avvisa subito che si tratta di episodi e occasioni narrativi, in cui si è trovata presente o coinvolta con persone a quello stadio della vita.
Sappiamo quanto la narrazione sia potente, autentica e ora anche scientificamente riconosciuta come metodo clinico-assistenziale (Consensus Conference 2014): però ai tempi di questo articolo, peraltro attualissimo, Jo pone le mani avanti sul fatto che siano necessarie ricerche serie sul campo, pur prendendo ad esempio autori conosciuti come Hampe (1979), Callanan e Kelley (1997).
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IL PROCESSO INVISIBILE DEL MORIRE
Jo sostiene per esperienza che gli istinti umani correlati al morire sono molto degni di considerazione, soltanto che pochi malati, particolarmente convinti e coraggiosi nel parlare del morire, si confidano con il Personale, così concentrato sulla guarigione e sulle cure.
La prima volta che se ne rese conto fu grazie ad un paziente con un avanzato caso di cancro alla prostata che, di prima mattina, le avevano chiesto di andare a trovare. Si era svegliato di notte e aveva detto all’infermiera che stava morendo. Mentre parlavamo, lo disse anche a lei e le chiese di chiamare i suoi parenti che vivevano a circa otto ore di distanza. Rassicurandolo che lo avrebbe fatto, la famiglia arrivò il giorno dopo e, anche se continuò le sedute di radioterapia, morì circa una settimana più tardi.
Conversazioni come queste, rimarca Jo, sono rare negli ambienti ospedalieri forse perché ci siamo convinti che la medicina del XXI secolo controlli il nostro destino e abbiamo perso parte di quella naturalezza che è rimasta intatta negli animali, capaci non solo di trovare il luogo giusto dove morire, ma anche di farsi compagni come Oscar, un gatto “terapeutico” in un centro riabilitativo che sembra sapere quando un paziente è morente, spesso standogli accanto durante le ultime ore di vita (Dosa DM A day in the life of Oscar the cat. N Engl J Med 2007;357(4): 328-329).
Un altro episodio è quello narrato da un’anziana infermiera, mentre Jo era in visita in una “nursing home”: due pazienti affette da demenza avanzata avevano entrambe accennato al fatto che stavano per morire, con due frasi apparentemente strane. Una disse: “Lui era qui, ma avevo bisogno di un biglietto!”; l’altra: ”Sono andata, ma la porta era chiusa”. Entrambe morirono pacificamente due o tre giorni dopo, ma solo dopo la loro dipartita l’infermiera si rese conto che entrambe sapevano di stare morendo.
Callanan e Kelley parlano di un “linguaggio simbolico nel morire” e fanno un altro esempio: un signore affetto da cancro che aveva acquistato una barca in vista della pensione. Una sera tardi, in Hospice, chiese all’infermiera di dirgli, per favore, l’orario delle maree: lei, con notevole sensibilità e intuizione, comprese che si trattava di altro e telefonò alla moglie. L’uomo morì poche ore più tardi, con moglie e figlio accanto.
Nei prossimi 3 paragrafi, Jo presenta racconti significativi circa i bisogni psico-spirituali ed esistenziali del morire con il fine di esplorare cosa potrebbe succedere al Sé in questo processo. – che amplia dal lavoro di Hampe (1979).
“La fuga da Sé”
Nonostante il Personale spesso parli ad alta voce degli ultimi istanti di qualche paziente, il morire è spesso percepito come un atto passivo, ma sappiamo dai racconti che non è così.
Per esempio, ecco il caso di Mrs. Mac, vedova, con problemi seri di cuore che richiedevano un po’ di morfina per alleviare la dispnea notturna. Una mattina la Signora Mac, che ormai stava molto male, riferì all’infermiera che vedeva molte persone nella sua camera: l’infermiera pensò che potesse essere l’effeto della morfina: ma, alla domanda specifica se suo marito fosse tra le persone, rispose: “No, e non vado finché non arriva Lui!” Cinque giorni dopo, la Signora Mac disse con calma all’infermiera:” È qui!”. Morì più tardi quel pomeriggio stesso.
È piuttosto evidente, allora che la fuga da se stessi nel morire sia, per il morente, un processo molto più attivo di quello che riconosciamo ai nostri giorni.
Jo dice di essere rimasta affascinata dalla confidenza e dal controllo che Mrs. Mac mostrò negli ultimi suoi giorni di vita, anche se la sensazione che questa Signora aveva dell’essere accompagnata nel suo andarsene è qualcosa di familiare ai Curanti. Come ad esempio quella signora, devota cristiana, soporosa per parecchi giorni che all’improvviso si svegliò sorridendo al marito dicendo: “Stanno arrivando”, per poi morire poco dopo.
Alcune persone, tuttavia, possono indugiare tra la vita e la morte per giorni o settimane e non abbiamo studi sufficienti per capire se questa persistenza prolungata sia provocata da un bisogno spirituale insoddisfatto.
Interessante, ad esempio, la storia di Cathy, affetta da demenza, che pareva sempre doversene andare, ma poi qualcosa la tratteneva: amorevolmente assistita dalla figlia e dai nipoti, raccontò di aver visto suo fratello morto ai piedi del letto e chiese alla figlia se lo vedeva anche lei. La sua storia ebbe una svolta quando Jo ha chiesto alla figlia se era una donna religiosa e la figlia ha risposto affermativamente, ma con la confidenza che non metteva piede in Chiesa da 20 anni. Jo scoprì che cinque giorni dopo un prete era stato invitato a fare visita alla Signora e un paio d’ore dopo lei era morta. Come se avesse atteso una sorta di permesso…
Jo conclude che, se la spiritualità è stata importante nella vita della persona morente, gioca un ruolo cruciale nel rendere più facile il processo del morire.
“Il panorama della vita”
Ricordando l’esperienza di Hampe, che sfiorò la morte e parlò delle “Near death experiences” descritte anche da altri, come l’avere uno sguardo sulla vita giovanile o sull’intero panorama della vita, menziona anche Callanan e Kelley che sostengono che alcuni morenti è come se avessero un piede nel mondo che conosciamo e un piede in un altro sconosciuto.
In un caso studiato da Jo stessa, una paziente, Elizabeth, riferiva molta angoscia e desiderio di eutanasia e sembrò avere una sorta di esperienza extracorporea due giorni prima della sua morte. Non era chiaro come questo desiderio di morire presto si conciliasse con il resistere così a lungo: che ci fosse un problema spirituale in attesa di risoluzione? Jo si offrì di pregare per Lei ed Elisabeth accettò immediatamente, solo che nel processo Elizabeth iniziò la respirazione “Cheyne Stokes” (respirazione che avviene prima di morire). Jo pensava che sarebbe morta mentre pregava con Lei! Tuttavia, dopo pochi secondi, il respiro di Elizabeth tornò normale e lei si voltò e ringraziò di cuore Jo. Jo si rammarica di non aver avuto il tempo di chiederle cosa se era successo in quei momenti ed Elizabeth non ha mai accennato a nulla. Pregarono ancora insieme il giorno successivo, ma poi, al ritorno da una breve vacanza, Jo seppe che aveva chiesto a diverse infermiere di leggerle la Bibbia e poi era morta serenamente nel sonno pochi giorni dopo.”
“L’espansione del Sé”
Nonostante molte situazioni di cui parla Hampe riguardino persone entrate in coma, ma non decedute, il tema finale che introduce è “l’espansione del Sé” o “l’intensificazione della coscienza nel morire”.
Jo narra un paio di racconti, sempre rammaricandosi del fatto che i pazienti non hanno avuto l’opportunità di descrivere la loro esperienza del morire perché “noi Clinici” non abbiamo osato chiederlo loro prima che fosse troppo tardi.
Mrs. Adams era una signora di 78 anni curata in una “nursing home”, in seguito ad un ictus che l’aveva lasciata molto severamente disabile, tra cui l’assoluta incapacità di parlare. Dopo parecchio tempo, quando si stavano per decidere per le ultime cure, un pomeriggio la figlia era andata a trovarla e, di fronte ad un curante, la mamma aveva per la prima volta parlato in modo chiaro dicendole: “Ricordati di portarmi a casa!”
La sera stessa Mrs Adams morì.
Suo padre stesso, confida Jo, poche ore prima di morire, espresse tutta la sua spiritualità e descrisse scene bellissime (era appassionato di storia naturale), giungendo a dire: “Ho capito ogni cosa e non vedo l’ora di andare in Paradiso”.
Concludendo e augurandosi che le Cure palliative, come si auspicava diversi anni fa, mantengano lo spirito originario di cura integrale e di lavoro d’équipe, Jo si augura di avere dimostrato, con questi racconti vissuti nella sua carriera di infermiera, cosa sia dare il permesso di andarsene e di aver mostrato come si debba restare vigili non solo sugli aspetti sociali, ma anche su quelli spirituali. Se vogliamo essere più coinvolti nello stare con i morenti, dobbiamo sintonizzarci con le dinamiche psico-spirituali ed esistenziali nella cura quotidiana.
Solo in questo modo di essere, potremo permettere loro la dignità di partecipare a conversazioni difficili e noi imparare come dar senso al linguaggio simbolico.
Più siamo preparati ad essere presenti a chi muore, più saremo in grado di comprendere cosa significa essere veramente umani e capire l’intuitività che gli esseri umani ancora posseggono quando stanno per morire. Non possiamo ignorare il processo che il morire innesca quando lasciano questa vita.
L’opportunità di imparare tutto questo viene dallo stare al letto del paziente, cioè dal “bedside teaching”. Solo così, potremo far nostro un concetto basilare: “dobbiamo essere più devoti al paziente che alla malattia” (Worcester 1935).