Il sole splende a Londra e si preannuncia proprio una bella giornata, non solo dal punto di vista meteorologico… Chiamo un taxi e con trepidazione mi dirigo al sobborgo di Hackney, perché riveste un’importanza straordinaria nella storia professionale e personale di Cicely: lì si trova ancora oggi il St. Joseph’s Hospice, la struttura dove si recava tre volte alla settimana come ricercatrice del St. Mary Hospital, grazie ad una borsa di studio vinta dopo la laurea in Medicina conseguita nel 1957.
Mi siedo sulla panchina, fuori dall’edificio cui possono accedere solo i parenti e il personale, e sosto commossa: penso a quante volte lei ha varcato quella soglia, con passo deciso, come era tipico del suo carattere determinato e tenace, ma anche con l’entusiasmo che tutti notavano nel suo modo di fare e che rendeva la sua presenza estremamente gradita e apprezzata. Era evidente quanto si trovasse a suo agio con i malati più gravi, con quei morenti che i medici trascuravano, come le aveva detto il Dottor Barrett convincendola a rimettersi a studiare: la sua postura di ascolto attento, di interesse sincero e di disponibilità ad accogliere tutti i bisogni, anche quelli meno facilmente espressi, come i bisogni spirituali, la rendevano preziosa agli occhi dei pazienti, dei familiari e del personale interno. Un vero medico che desiderava specializzarsi nel campo dove non si poteva più “guarire”, ma dove c’era ancora tanto da fare per “prendersi cura e “accompagnare”… Con tecnica e presenza, mente e cuore, competenza e compassione.
Impegnata in una rivoluzionaria ricerca sul dolore, per la quale esaminò nel tempo oltre mille casi di pazienti, riscuotendo apprezzamento e scrivendone su riviste scientifiche, Cicely proprio lì pose le basi della moderna terapia del dolore, mettendo in pratica quanto appreso al St. Luke a livello farmacologico, implementandolo con l’uso di farmaci nuovi e ispirandosi al tipo di assistenza amorevole e attenta che osservava nelle instancabili Suore irlandesi della Carità, che gestivano dal 1905 l’Hospice con dedizione totale.
Il suo modo di somministrare gli analgesici, a base di oppiacei, a intervalli di 4 ore, per bocca e prima che insorgesse il dolore, divenne poi prassi ospedaliera, perché “il dolore costante va dominato in modo costante”, dimostrando che il paziente non per questo ne diveniva dipendente, anzi…
La sua disponibilità a coinvolgere attivamente le infermiere in ogni fase della terapia, lasciando anche una certa elasticità sui dosaggi, proveniva dalla sua esperienza personale e dal riconoscimento dell’importanza del loro ruolo.
L’idea di accreditare, come metodo di registrazione dei dati dei pazienti, veri e propri diari clinici e schede di terapia, uniti a un quaderno per le consegne di reparto, fu un grande passo avanti rispetto alla semplice registrazione dei farmaci in uso e una base solida per la sua ricerca.
Ma le innovazioni tecniche andavano di pari passo con le premure per i pazienti e le loro famiglie: Cicely rese molto più elastico l’orario delle visite come in una vera casa, cioè praticamente h24; coinvolse sempre più i familiari in tutte le fasi della malattia in modo da farli veramente partecipi anche nella vita dell’Hospice; inoltre, promuoveva il più possibile l’autonomia dei pazienti, stimolandoli a partecipare ad attività e ad alzarsi spesso dal letto… Sempre nell’ottica di quel modo di dare assistenza che li considerava persone vive fino all’ultimo e meritevoli di ogni “coccola” dal punto di vista emotivo e umano.
Cicely davvero studiava, sperimentava e si lasciava guidare dall’ispirazione che le fornivano i suoi pazienti, ascoltandone i racconti, onorandone le storie e cercando di soddisfare concretamente i loro bisogni. David Tasma le aveva dato “le idee di base”, come disse in seguito: ma proprio al St. Joseph’s avvenne il secondo fondamentale incontro con chi le diede “l’a tutto a vapore”: Antoni Michniewicz, il paziente fondatore numero 2. La storia continua…