“Evoluzione”: una “nuova” autobiografia di Cicely a puntate.

La classica autobiografia di Cicely Saunders “L’assistenza ai malati incurabili” di Shirley Du Boulay del 1984, scritta con l’approvazione di Cicely stessa, è attualmente – e da un po’ tempo ormai – non disponibile in italiano: ne esiste una versione inglese aggiornata con 4 nuovi capitoli, che abbiamo pensato di presentarvi in altrettante puntate perché raccontano gli avvenimenti successivi alla storia raccontata nel testo originale. Un tributo ad una donna straordinaria che ancora oggi ci affascina e ha tanto da insegnarci nel campo delle Cure Palliative originarie, come un faro che illumina l’oscurità di chi vive una malattia inguaribile: incominciamo, quindi, con la prima puntata, cioè con “Evoluzione”, ultimo capitolo aggiornato da Marianne Rankin. Buona lettura!

L’idea di Cicely non era quella di iniziare un movimento: aveva visto qualcosa che bisognava fosse fatto e lo fece. Infatti, per Lei fu una piacevole sorpresa che il St. Christopher’s e tutto ciò che rappresentava divenisse l’inizio di un movimento che, veramente in poco tempo, si diffuse in tutto il mondo.

A chi le chiedeva come poteva avere tutto quel successo rispondeva onestamente che “era la persona giusta nel posto giusto al momento giusto”.

Come spesso accade, quest’avventura internazionale iniziò in modo semplice. Mentre lavorava sodo al St. Joseph’s Hospice, ebbe l’opportunità, aiutata anche da suo fratello minore Christopher (persona deliziosa e vivace, membro onorario del Sentiero, che ho avuto il privilegio di frequentare e che mi raccontò proprio anche questo fatto…) di fare un viaggio negli Stati Uniti: durante quel soggiorno fu invitata a tenere un discorso agli studenti di Medicina della Yale University. Cosa fece in quell’occasione che riscosse un grande entusiasmo tra di loro? Ciò che fece spesso, anche per raccogliere i fondi indispensabili a dar vita al suo Hospice: mostrò loro foto di pazienti al momento dell’ammissione al St. Joseph’s, raccontò loro le cure mediche che ricevevano – in particolare l’uso regolare di oppioidi – e poi fece loro vedere foto degli stessi pazienti, vigili e molto più felici: l’uditorio intero rimase affascinato, tanto da tributarle una standing ovation.

Queste notizie raggiunsero Florence Wald, allora Preside della Yale University Nursing School, che la invitò a tenere un discorso alle allieve infermiere, ottenendo un secondo grande successo. Tutto ciò fu la punta di diamante di un viaggio di otto settimane negli States, in cui Cicely visitò ben 18 ospedali ed ebbe modo di discutere di Cure palliative con medici, psichiatri, infermieri, assistenti sociali e cappellani. Lei principalmente era venuta per imparare e le sue idee per il St. Christopher’s furono confermate e chiarificate dall’esperienza. Quello che non aveva previsto era quanto lei stessa avrebbe donato, riuscendo a ispirare e far conoscere gente che lavorava nel medesimo campo in America e in Canada, invitata a ritornare più volte e avendo un’influenza enorme sullo scenario medico americano.

All’inizio non insistette sul lato spirituale del suo messaggio: voleva essere ricevuta prima come medico e così fu. Furono la sua conoscenza clinica del controllo del dolore, il suo contributo in campo farmacologico e il suo desiderio di volgere una “tenera cura amorevole in un’efficace cura amorevole” a colpire particolarmente chi la incontrava. Voleva che fosse chiaro quale ardua sfida fosse il lavoro in Hospice; ciò nonostante, incontrò parecchia resistenza, o al più indifferenza, tra gli appartenenti alla professione medica in America e in Inghilterra, sia per motivi cultural-religiosi, sia perché obbligava a confrontarsi con la paura della propria morte.

Cicely, tuttavia, restò ferma nelle sue posizioni e affrontò il sistema sanitario in entrambi i paesi, suscitando naturalmente anche grande ammirazione per il suo coraggio e per essere una combattente, nonostante ostacoli e opposizioni: quando poi fu costruito il St. Christopher’s e le sue idee divennero concrete, venne profondamente rispettata per il risultato raggiunto.

Il Dr. Balfour Mount, famoso per aver creato la prima Unità di Cure palliative al Royal Victoria Hospital di Montreal in Canada, imparò ciò che poi mise in pratica proprio al St. Christopher’s e fu allievo di Cicely, di cui riconobbe pubblicamente il genio visionario nell’avere unito l’assistenza ai pazienti terminali, la formazione e la ricerca in un’unica struttura e in un unico modo di dare assistenza.

Nel 1969 ricevette la prima di tante onorificenze e di tanti premi, di cui andò sempre particolarmente orgogliosa: “Honorary Doctor in Science” alla Yale University. Gli interscambi con il St. Christopher’s furono continui e Cicely col tempo, diede la sua benedizione alla seconda generazione di palliativisti: “Quando tu dai inizio a qualcosa di nuovo, è la seconda generazione che davvero conta”.

Il vero desiderio di Cicely era che ciò che il St. Christopher’s aveva dimostrato funzionare venisse trasferito nella pratica medica generale: quanta strada ha fatto l’antichissimo concetto di “hospice” come luogo di riposo per pellegrini e viandanti, già venendo collegato alla cura dei morenti dalle Suore irlandesi della Carità a fine ‘800 fondando l’Our Lady’s Hospice a Dublino, poi 16 anni dopo il St. Joseph’s Hospice a Londra, posto privilegiato per la formazione di Cicely nell’assistenza amorevole ed efficace degli inguaribili e nella sperimentazione dei farmaci che sta alla base della moderna Terapia del dolore.

Oggi con il nome generico di “Hospice”, oltre alle strutture propriamente dedicate s’intende un modo di dare assistenza che può essere applicato ovunque, in ospedale, in casa, nelle Rsa, purché adattato alle varie esigenze della comunità locale e ai desideri dei pazienti: proprio ciò che la fondatrice delle moderne Cure palliative voleva! Anche se lei stessa riconosceva che la struttura dell’Hospice ha qualcosa di unico che tutte le altre soluzioni non hanno: un’atmosfera di comunità, l’esser solamente orientato alla ricerca e alla formazione sulle cure palliative, la libertà da ingerenze esterne.

Negli anni ‘70 emersero 4 modelli in un modo o nell’altro ispirati al St. Christopher’s: il primo furono gli hospice veri e propri come il St Luke’s a Sheffield, il St. Anne’s a Manchester e il St. Barnaba a Worthing; il secondo le Unità di Cure Palliative collegate ad un ospedale o come reparto interno o come parte del suo campus; il terzo le Cure domiciliari per chi poteva o voleva rimanere a casa sua; infine, il quarto modello, che meglio rispondeva ai sogni e alle speranze di Cicely, era l’équipe di supporto ospedaliera, che garantiva ai pazienti la continuità delle Cure e iniziò al St. Luke’s di New York nel 1975, per poi approdare due anni dopo al St Thomas’ Hospital di Londra.

Cicely ebbe veramente il merito di trasformare il concetto della morte nel mondo e non andò affatto in pensione dopo aver raggiunto tali risultati: rimase attiva in vari ruoli al St. Christopher’s, forse allentando un po’ le redini dopo il matrimonio con Marian e la sua malattia, per cui rallentò i ritmi di viaggi e presenze per stare a casa con lui.

In ogni caso, pur desiderando mantenere uno sguardo concreto sulla sua creatura fino all’ultimo, a Cicely va riconosciuto il merito del Capitano che fa sì che il suo equipaggio sia in grado di condurre la nave da solo quando è necessario: la fiducia di Cicely nel suo Management era salda e lei gioiva nel vedere qualcuno mettere in pratica o sviluppare idee nuove.

Tuttavia, non smise mai di pensare in modo creativo all’assistenza dei morenti, divulgando le sue idee attraverso scritti e discorsi e accettando, ove possibile, ogni invito in Inghilterra. Non smise mai di incoraggiare le persone a prendersi cura del dolore fisico, spirituale, sociale e psicologico, cioè di quel “dolore totale” da lei teorizzato e che ora veniva preso in considerazione per ogni tipo di cura, non solo quella per i morenti. Se le chiedevano perché avesse dedicato tutta la vita a questa missione, rispondeva sempre: “Per David, è molto semplice.”

Mise veramente tutta se stessa nel suo lavoro: mente, cuore, fede, compassione, energia e sofferenza; fu capace di trasformare i suoi dolori e le sue perdite personali in una delle imprese più originali e creative del XX secolo.

Non pensò molto alla propria morte, perché riteneva che fosse difficile farlo in astratto e preferibile al sopraggiungere delle cose. Imparò per prima e insegnò, tuttavia, che allenarsi nella vita alle piccole perdite, a lasciar andare, è un ottimo modo di prepararsi all’ultima e definitiva perdita della morte.

Non si creda che per lei la morte non fosse un oltraggio, tanto che pensava che chi lavorava nel suo campo e non si poneva domande avrebbe fatto meglio a cambiare mansione. Tuttavia, il suo tentativo di rendere la morte più tollerabile e di aiutare le persone a vivere fino all’ultimo furono l’altra faccia della medaglia del suo amore per la vita, sottolineato dall’espressione tipica sua: “va tutto bene”. Diceva così perché era assolutamente convinta che la morte non fosse la fine di tutto; nel 1976, a Gerusalemme, pregando nella Chiesa del Santo Sepolcro, disse a un monaco lì presente: “Io lavoro con i morenti e vedo continuamente la Resurrezione”.

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