Dal St. Thomas’ Hospital a David Tasma: proprio come alcuni luoghi divengono particolarmente significativi nella vita di una persona e si fanno pietre miliari, così alcuni incontri si imprimono a caldo nell’anima e segnano un radicale cambio di passo. Questo è quanto accadde a Cicely nell’incontro con David, il suo primo “paziente fondatore”, cioè la prima “pietra vivente” del futuro St. Christopher’s Hospice, con il quale condivise un breve, ma fondamentale tratto di strada, dall’autunno 1947 al 25 febbraio del 1948, in qualità di sua assistente sociale.
Venticinque incontri – prima in casa e poi nell’Archway Hospital di Highgate, il sobborgo di Londra dove egli abitava -, poche frasi annotate nei diari e una ricchezza infinita di intimi colloqui: fu così, discutendo a lungo delle necessità che egli provava personalmente come malato di cancro senza speranza di guarigione, che la giovane Cicely ebbe la certezza della via da imboccare nella cura dei malati inguaribili e l’ispirazione incarnata per un’assistenza specifica ai morenti; come disse in seguito, “David mi diede le idee di base e Antoni l’a tutto a vapore” (Antoni è il secondo “paziente fondatore”: lo conosceremo!).
Dalla storia di David e dai suoi racconti, dunque, sedendogli accanto in una postura di ascolto attivo e amorevole, imparò che il dolore non è soltanto fisico e che, pur essendo indispensabile tenere sotto controllo “il dolore costante in modo costante”, ci sono bisogni emotivi, sociali e spirituali che sono altrettanto importanti ed emergono prepotenti soprattutto quando la vita sta per scadere: David era solo, lontano dalla sua patria e dalla sua famiglia, essendo emigrato dalla Polonia e sopravvissuto al ghetto di Varsavia; aveva lavorato come cameriere, prima in Francia, poi a Londra e aveva soltanto quarant’anni, con un senso doloroso di rimpianto e di tristezza profonda per non aver lasciato tracce significative dietro di sé e aver gettato via la sua vita. Proprio lui cui Cicely, con coraggio e onestà, aveva detto “sì”, mentre attendevano insieme l’ambulanza che lo avrebbe portato in ospedale e lui le pose la fatidica domanda: “Sto per morire?”, era un uomo altrettanto coraggioso e lucido, ma carico d’angoscia.
Lei seppe accogliere il dolore profondo della sua anima e camminare accanto a lui nella ricerca di un senso: rispettando il suo essere ebreo agnostico, leggiamo nei suoi diari che una volta lo aiutò leggendogli i Salmi della sua tradizione, quando desiderava essere consolato, ma ciò che fece soprattutto, al di là di ogni singola azione, fu rispondere generosamente alla sua richiesta: “Voglio solo ciò che è nella tua mente e nel tuo cuore”. Nella complessità di una relazione autentica, che sconfinò nell’innamoramento e che le lasciò in eredità un lutto nascosto da elaborare in solitaria, perché socialmente indicibile, Cicely ci mostra come, con i dovuti dispositivi di protezione emotivi, nelle Cure palliative sia indispensabile l’amore tanto quanto i farmaci, l’esserci sempre e comunque, anche quando non si può far altro che questo… Abitare la distanza senza timore di tuffarsi nel mistero dell’altro.
Quando David, infine, fece propria interiormente la possibilità di essere lui stesso un seme fecondo per garantire ad altri gravemente malati l’assistenza più adatta e completa, tradusse la sua ricerca personale in un gesto concreto di solidarietà per il prossimo e in un aiuto fondamentale per il progetto di Cicely: “costruire una casa adatta ai morenti”. Fu così che le lasciò in eredità i pochi soldi che possedeva, 500 sterline, dicendole: “Sarò una finestra nella tua casa”.
La sera prima di morire confidò all’infermiera di essersi rappacificato con Dio e con la vita: trascorse gli ultimi momenti in compagnia di Cicely e poi chiuse gli occhi per non riaprirli più.
La “finestra di David” esiste veramente, ancora oggi, seppur non più nell’ingresso centrale, come era in principio ad accogliere simbolicamente chiunque entrava in Hospice, ma un pochino più spostata in seguito ad una ristrutturazione; guardandola e conoscendone la storia, mille emozioni fanno capolino: rispetto, tenerezza, comprensione, ammirazione e infinita gratitudine… Si percepisce, come disse una volta Cicely, “un segno di apertura verso i malati, verso il mondo e verso noi stessi”.